Il padre infedele di Antonio Scurati.

Il padre infedele è un libro di non facile digestione, grondante di dolore, frustrazione, senso di colpa e disorientamento. Il padre in questione è uno chef della Milano del primo decennio dei nuovi anni Duemila che si racconta nel suo diario-memoriale e che vive, come la definisce lui, la “famiglia evoluta” in cui il padre ha dismesso gli abiti del pater familias della generazione precedente ed è costretto a fare i conti con corsi pre-parto, il parto stesso e tutte le mansioni che prima erano appannaggio esclusivo della donna. Nei pensieri dello chef dunque c’è sempre un sottofondo mitico che attraversa le generazioni di padri e che gli fa capire che il ruolo dell’uomo nella famiglia ormai è irrimediabilmente cambiato, non è proprio a suo agio in questa nuova figura genitoriale di inizio XXI secolo, ma in fondo la accetta e la vive con non poco disagio. Glauco Revelli, nome del protagonista, è un uomo figlio del suo tempo (quello post boom economico e che ha deluso un’intera generazione) che confida, tra le pagine del libro, un periodo della sua vita difficile, quello vissuto dopo la nascita della figlia, che contemporaneamente è affiancato dal suo declino professionale e la depressione post-parto della moglie.

Non si può mancare di dire che il nostro chef è laureato in filosofia e che ha scelto poi di intraprendere la strada culinaria perché appassionato e figlio d’arte; mira alto, vuole rinnovare la cucina, siamo nel pieno del fiorire della nouvelle cuisine, in una Milano che pretende il massimo e non ammette errori. Una Milano chic, forse un po’ radical chic, come a tratti sembra apparire la coppia, che cerca di stare al passo con il tempo, ma di fatto non ci riesce: hanno una figlia già tardi, sono ormai quarantenni stanchi; fanno fede a “filosofie new age del parto naturale”, ma poi alla fine la figlia nasce alla clinica Mangiagalli. Le ipocrisie del suo periodo Glauco le smaschera tutte mentre le vive, analizzandosi senza ironia, manca infatti il sarcasmo, nel prologo leggiamo “nessuna sarcastica autoindulgenza”, il sarcasmo è accantonato perché “malattia pandemica dello spirito contemporaneo”.

Un protagonista che si prende molto sul serio dunque (forse un po’ troppo), che dichiara di essere un “irrequieto, polemico, insoddisfatto, appassionato e litigioso” e anche un po’ snob aggiungerei. La narrazione è condotta con toni alti, esagerati se pensiamo che a narrarceli è uno chef, sebbene laureato in filosofia. In fondo stiamo leggendo le memorie di un uomo in realtà semplice, distrutto e ammaccato, che bisogno c’era di far partorire dalla sua mente citazioni colte, digressioni storiche, una perifrastica articolata e paroloni stentorei?

L’autore fotografa alcune scene degli anni che corrono in rappresentazioni che possono risultare un po’ stereotipate e stucchevoli, come l’evento del lancio della collezione bambino di Dolce e Gabbana, o come nel caso delle cougar arrapate al tavolo del suo ristorante, che incarnano la donna nuova, quella che non ha bisogno del fallo. Come delle recenti donne vampiro decadenti, queste business woman sono rappresentate sinteticamente, in sfaccettature esagerate, utili ad avvalorare la visione del narratore, sempre abbastanza pessimistica e che ritrae la nuova stirpe ormai sterile, succube e incapace di reagire a tempi che disarmano. C’è infatti un’analisi sociologica e storica, che evidenzia la decadenza occidentale e ci parla già di oggi, nonostante il libro sia stato editato dieci anni fa, nel 2013, in quegli anni in cui “Il decennio è iniziato con i musulmani [evidente riferimento all’attentato delle torri gemelle del 2001] ed è finito con i cinesi [i nuovi dominatori economici]”.

Sicuramente il punto di vista del narratore getta luce su un autentico spaccato di vita e l’autore ci mostra il protagonista come archetipo, Glauco è un novello Enea che tiene insieme due generazioni, quella vecchia, ormai superata e in parte rimpianta di suo padre e quella nuova che ancora deve venire di sua figlia. Un novello Enea però che fa fatica a portare il peso di suo padre sulle spalle e che non sa dove lo condurrà il viaggio intrapreso dopo la fuga da Troia.

Il padre infedele è un libro autentico che però pecca un po’ della presunzione, forse quella del protagonista, e credo anche dell’autore, di voler a tutti i costi innalzare i toni, anche quando non ce n’è bisogno, il dolore può essere raccontato nella sua essenzialità e crudezza, senza per forza ergersi a simbolo di un’intera generazione. 

Voi cosa ne pensate? Vi incuriosisce? L’avete letto? Fatemi sapere! Ciaoooo

Di Giulia

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