Il castello di Otranto, editato in forma anonima per la prima volta nel 1764, ha reso celebre il suo autore inglese: Horace Walpole. Nella prima edizione, Walpole usa l’espediente letterario del manoscritto: l’opera nasce grazie a un ritrovamento fatto in una biblioteca di un’antica famiglia cattolica inglese. Subito il collegamento corre a Manzoni e allo stesso trucco che userà il secolo dopo per dar vita a I Promessi Sposi, ma non illudetevi, nella lettura de Il castello di Otranto non si toccheranno le vette letterarie raggiunte dal nostro maestro italiano, che userà tale espediente per motivi assai diversi da Walpole: dare ulteriore veridicità storica alla sua opera, nata da uno studio meticoloso delle fonti.
L’autore inglese invece sapeva benissimo che stava rischiando, l’opera infatti, come in molti avranno già sentito dire, dà i natali a un nuovo genere per l’epoca: il gotico. Così, per non rischiare la reputazione, lo scaltro Walpole edita il suo azzardo letterario in forma anonima, spacciandosi per il traduttore, dicendo che il manoscritto era stato stampato in italiano a Napoli nel 1529. L’opera avrà poi un enorme successo tra il pubblico e sarà rieditata un anno dopo, con una nuova prefazione in cui l’autore fa ammenda e confessa lo stratagemma. Walpole rimette nelle mani del pubblico il giudizio sul suo romanzo e viene premiato, dunque il genere piacque, sì, e mi immagino delle giovani nobili settecentesche che di sera, alla debole luce della loro candela, si accingono a leggere questa storia fatta di amore cavalleresco, brama di potere e suggestione religiosa. Credo che il punto stia proprio qui, questo libro ha incontrato un gusto ormai sorpassato, fatto di donne timorate di Dio e completamente assoggettate alla figura maschile; in cui c’è il gusto per il terrore, ma con moderazione, l’ambientazione infatti è gotica ma non trasuda di atmosfere lugubri, spettri, castelli abbandonati e paura, tutto viene smorzato da una certa religiosità che non viene intaccata; inoltre le conversazioni cavalleresco-amorose sono al limite del sopportabile per un lettore moderno. La trama non è particolarmente elaborata (parliamo di un romanzo di circa cento pagine), il personaggio più attraente risulta il protagonista, il principe d’Otranto, in cui si possono sentire dei vaghi e lontani echi shakespeariani. Manfredi è finito e in cuor suo lo sa perché tutti i presagi glielo fanno intendere, il suo turbamento sembra proprio ricalcare quello di Macbeth.
Una scena degna di riflessione è quella in cui padre Girolamo si scontra con il borioso Manfredi. La discussione accesa che si genera riguardo al divorzio che Manfredi vuole ottenere a danno della sua devota moglie Ippolita ricorda quella che scriverà tempo dopo il Manzoni per i suoi Promessi Sposi. Fra Cristoforo e Don Rodrigo avranno un diverbio molto simile presso il palazzotto di quest’ultimo proprio sulle motivazioni indegne che hanno fatto sì che Don Rodrigo impedisse il matrimonio dei due sposi promessi. Fra Cristoforo darà prova della sua superiorità morale fino alla fine del romanzo, mentre padre Girolamo inizialmente sembra dimostrare una forte tempra che sarà poi mitigata dai ricatti di Manfredi.
Concludo dicendo che il libro mi ha lasciata insoddisfatta, mi aspettavo molto di più da questo pilastro del genere, probabilmente Walpole ha impresso nella storia letteraria un cauto inizio e io devo indirizzare le mie ricerche di lettura verso qualcosa di più spinto.